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giovedì 31 maggio 2012

La nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente è diversa da quella di giustificato motivo di licenziamento - Cass., sez. lavoro, sentenza n. 11118 del 26.07.2002

Svolgimento del processo

Con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ. al Pretore-Giudice del lavoro di Firenze M. V. conveniva in giudizio la s.r.l. "T." esponendo che:

-) era stato assunto dalla società convenuta il 4 giugno 1979 e di essere stato inquadrato con la qualifica di dirigente a far data dal 2 settembre 1987;

-) con comunicazione inviata a tutte le filiali la società aveva dichiarato che "negli ultimi due anni i risultati della filiale di Firenze erano stati nuovamente sfavorevoli";

-) con lettera datata 4 marzo 1998 la società aveva risolto il rapporto per dedotta "chiusura della filiale T. di Firenze con decorrenza 1 aprile 1998";

-) avverso tale risoluzione aveva proposto ricorso al "collegio arbitrale" che era stato declinato dall'azienda;

-) anche il tentativo di conciliazione esperito presso la Direzione Provinciale del Lavoro non aveva avuto esito positivo.

Il ricorrente richiedeva, quindi, la condanna della società convenuta al pagamento dell'indennità supplementare di licenziamento, dell'indennità sostitutiva del preavviso, delle ferie, della retribuzione di settembre, dei ratei relativi alle mensilità supplementari, del risarcimento del danno biologico (da determinarsi equitativamente) attribuito al comportamento colpevole della convenuta.

Nel relativo giudizio si costituiva la s.r.l. "T. " che impugnava integralmente la domanda attorea e ne chiedeva il rigetto; proponeva, inoltre, domanda riconvenzionale al fine di ottenere il pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso a causa delle dimissioni rassegnate dal ricorrente.

A seguito della riconvenzionale proposta dalla parte convenuta il ricorrente proponeva, a sua volta, domanda riconvenzionale chiedendo che, previo accertamento della giusta causa posta a base delle dimissioni dallo stesso rassegnate, fosse la società convenuta condannata al pagamento della somma di L. 34.545.452 per i quattro mesi di preavviso non lavorato, nonché della somma di L. 54.638.212 a titolo di indennità supplementare ex art. 32 del contratto collettivo.

L'adito Giudice del Lavoro - dopo l'espletamento dell'interrogatorio delle parti e di prova testimoniale -, con sentenza in data 7 ottobre 1999, dichiarava ingiustificato il licenziamento intimato al V. dalla T. s.r.l. il 4 marzo 1998; dichiarava il diritto del ricorrente a percepire l'indennità sostitutiva del preavviso, nonché l'indennità supplementare pari a venti mensilità retributive, sulla base di una retribuzione mensile pari a L. 11.493.687; dichiarava il diritto del ricorrente alla restituzione della somma di L. 34.545.452, trattenuta dalla società, con interessi dal novembre 1998 al saldo; condannava la società convenuta al pagamento in favore del ricorrente dell'indennità sostitutiva del preavviso non lavorato per fatto e colpa della T. e dell'indennità sostitutiva delle ferie non godute, nonché al pagamento di una somma pari a venti mensilità dell'indennità supplementare summenzionata e al pagamento dello stipendio del mese di settembre 1998, delle ferie non godute, del rateo di gratifica natalizia del rateo di quattordicesima mensilità e del T.F.R.; rigettava la riconvenzionale spiegata dalla T..

A seguito di appello "principale" della s.r.l. "T. " e di appello "incidentale" del V. il Tribunale di Firenze (quale Giudice del Lavoro di secondo grado) "accoglieva l'appello incidentale proposto dal V., dichiarando tenuta la T. s.r.l. a pagare al predetto l'indennità supplementare nella misura di ventisette mensilità dell'ultima retribuzione (e, quindi, a tale titolo, la somma di L. 362.051.140), confermando per il resto le statuizioni della sentenza di primo grado".

Per quello che rileva in questa sede il Giudice di appello ha rimarcato che:

-) "l'attività dei V., che era iniziata ben prima dell'apertura della filiale di Sesto Fiorentino, aveva caratteristiche assolutamente simili a quelle che successivamente ha avuto dopo l'apertura della filiale stessa... [per cui] è evidente che le mansioni del V. ben potevano essere esercitate compiutamente, anche in assenza della filiale, essendo decorso un lungo periodo di tempo fra l'inizio delle predette mansioni e l'apertura della filiale che, quindi, non poteva rappresentare un necessario supporto";

-) "il V. ha fin dall'inizio sostenuto che il licenziamento non era sorretto da ragioni obiettive, con il che ha implicitamente richiesto anche un giudizio sulla fondatezza e giustificatezza obiettive dell'atto impugnato";

-) "le dimissioni sono state date dal V. dopo che, con lettera del 30 settembre 1998 e del 7 ottobre 1998, lo stesso aveva comunicato la propria disponibilità a riprendere servizio, finita la malattia, e confermata tale disponibilità, rimanendo in attesa di ricevere disposizioni sulla sede di lavoro... [per cui] non si può parlare di un comportamento del V. non conforme a buona fede";

-) "in base all'art. 29 del C.C.N.L. il V. aveva diritto al pagamento di una indennità supplementare, che è rigidamente predeterminata e non è derogabile dal giudice, nella misura di ventisette e non di venti mensilità; ... per il resto vengono confermate le residue statuizioni economiche, non avendo formato oggetto di specifico appello il fatto che il giudice abbia ricompreso in questa indennità anche il risarcimento equitativo del danno biologico subito".

Per la cassazione di tale sentenza la s.r.l. "T. " ha proposto appello affidato a tre motivi.

L'intimato M. V. resiste con controricorso.

Motivi della decisione

I -. Con il primo motivo di ricorso (articolato su tre profili) il ricorrente - denunziando "violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2118 cod. civ. e dell'art. 10 della legge n. 604/1966 nonché omessa, insufficiente c/o contraddittoria motivazione in ordine a un punto decisivo della controversia" - censura la sentenza impugnata a) sotto il profilo della giustificatezza del licenziamento, "per omessa o insufficiente considerazione di un singolo elemento fattuale, di importanza peraltro decisiva, consistente nella qualifica di dirigente rivestita dal V. all'atto del licenziamento, con la conseguenza che la valutazione circa la liceità del licenziamento intimato a quest'ultimo avrebbe dovuto essere effettuata secondo diversi parametri e non già alla stregua della normativa garantista riguardante i lavoratori subordinati con qualifica non dirigenziale"; b) sotto il profilo dell'incongruenza della motivazione in ordine alla condizione del licenziamento, "per avere dedotto da un fatto certo (apertura di una filiale in epoca successiva alla nomina del dirigente preposto) una conseguenza (irrilevanza della filiale in rapporto alle funzioni del dirigente) del tutto irragionevole e priva di senso sul piano della mera logica formale"; c) sotto il profilo della possibilità di reimpiego del V., "per avere ricollegato la possibilità di reimpiego di un lavoratore con qualifica dirigenziale all'assunzione di altri dipendenti privi di tale qualifica, ipotizzando quindi non solo l'attribuzione al dirigente di mansioni non dirigenziali, ma addirittura con vincolo di subordinazione gerarchica".

Con il secondo motivo la società ricorrente - denunziando "violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2119 cod. civ., nonché omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione in ordine a un punto decisivo della controversia" - censura la sentenza del Tribunale di Firenze "laddove, nel ritenere giustificato il rifiuto della prestazione lavorativa del V. in conseguenza del comportamento del datore di lavoro, che non aveva dato riscontro alcuno alle comunicazioni del dirigente, il quale aveva dichiarato la propria disponibilità a riprendere il servizio, rimanendo in attesa di ricevere disposizioni sulla sede di lavoro, non ha tenuto in alcun conto degli ulteriori elementi dedotti dalla T., da cui si evinceva, non solo la buona fede di quest'ultima, ma anche la pervicace volontà del lavoratore di sottrarsi allo svolgimento del periodo lavorato".

Con il terzo motivo la ricorrente - denunziando "violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 e segg. cod. civ. in riferimento all'interpretazione dell'art. 29, commi 16 e 17, del c.c.n.l. per i dirigenti di aziende del terziario" - addebita al Giudice di appello "di avere palesemente errato allorché ha ritenuto che la misura dell'indennità supplementare, dovuta in virtù della contrattazione collettiva, sia rigidamente predeterminata e non derogabile dal giudice, di guisa da non lasciare a quest'ultimo alcun margine di discrezionalità ..., con evidente violazione del canone di ermeneutica contrattuale che impone l'adozione del criterio letterale, considerata la chiarezza della norma in esame, che il giudice di merito, più che interpretare in maniera difforme, ha invero del tutto travisato".

II -. Preliminarmente alla disamina del primo motivo di ricorso occorre valutare l'eccezione - sollevata dai difensori del controricorrente in sede di discussione orale - di "novità" della questione concernente "la giustificatezza del licenziamento" del V. sulla base della qualifica di dirigente da questi rivestita in quanto lo stesso quale "dirigente minore" o "pseudo dirigente" non poteva essere licenziato secondo la cennata modalità ma solo per "giusta causa" o per "giustificato motivo".

La cennata eccezione appare inammissibile - atteso che nella discussione orale, così come nella memoria difensiva ex art. 378 cod. proc. civ., non possono essere proposte o illustrate "nuove questioni" (cfr. Cass. n. 1860/1992, Cass. n. 3372/1971) - e, comunque, infondata - rilevato che nella sentenza impugnata è stato testualmente affermato che "il V. fin dall'inizio ha richiesto un giudizio sulla fondatezza e giustificatezza obiettive del licenziamento" e siffatta pronunzia non è stata impugnata (sia pure mediante ricorso incidentale condizionato) dal controricorrente -: eccezione che, di conseguenza, deve essere respinta.

III -. Tanto premesso, il primo motivo di ricorso si appalesa infondato nei diversi profili sotto i quali è stato sviluppato e, anzitutto, con riferimento alla censura secondo cui il Tribunale di Firenze non avrebbe considerato che il V. era dirigente, sicché la valutazione del licenziamento de quo avrebbe dovuto avvenire con riferimento al licenziamento di un lavoratore avente tale qualifica e non di un lavoratore subordinato destinatario della normativa sulla "stabilità reale" ex art. 18 della legge n. 300/1970.

Al riguardo, per completezza di disamina, appare opportuno puntualizzare - alla stregua della ricostruzione normativa delineata da questa Corte nella sentenza n. 1592/2000 - i caratteri essenziali del licenziamento dei dirigenti e i presupposti per il riconoscimento agli stessi della cd. "indennità supplementare" (nella specie, riconosciuta e fissata dall'art. 29 del c.c.n.l. di categoria).

Su tale punto è stato stabilito che la clausola del contratto collettivo per i dirigenti d'azienda che prevede per gli stessi la corresponsione di una indennità supplementare, qualora il licenziamento risulti ingiustificato, non può considerarsi nulla per indeterminatezza dell'oggetto perché la terminologia usata dalla clausola stessa non risulta dissimile, per quanto concerne la tecnica normativa, da quella adottata dal legislatore in materia di licenziamento individuale. È devoluto, conseguentemente, al giudice di merito, nell'ambito dei poteri interpretativi che gli competono, accertare quale sia il contenuto della clausola contrattuale e quale sia l'ambito della garanzia prevista per il dirigente in caso di licenziamento, potendo, così, spettare al detto dirigente una tutela del tutto analoga a quella degli altri lavoratori per i quali trova applicazione - per legge - la disciplina della legge 15 luglio 1966 n. 604 (Cass., Sez. Un., 9 dicembre 1986 n. 7295).

In una direzione diversa da quella seguita dalla cennata sentenza - che sembra operare in tema di garanzie in materia di recesso un accostamento tra la posizione dei dirigenti e quella degli altri lavoratori subordinati - si è mosso un successivo indirizzo giurisprudenziale secondo cui, invece, il licenziamento ingiustificato del dirigente nei cui confronti può essere disposto il licenziamento ad nutum, si verifica tutte le volte in cui il datore di lavoro eserciti il proprio diritto di recesso violando il principio fondamentale di buona fede che presiede all'esecuzione dei contratti (art. 1375 cod. civ.), in attuazione di un comportamento puramente pretestuoso (ad esempio, ai limiti della discriminazione) ovvero del tutto irrispettoso dell'osservanza delle regole procedimentali che assicurano la correttezza dell'esercizio del diritto. Ne consegue che il giudice investito della controversia relativa al diritto del dirigente alla corresponsione dell'indennità supplementare in dipendenza di un licenziamento ingiustificato, non può limitarsi alla mera applicazione dei parametri valutativi impiegati correttamente nella identificazione del licenziamento per giustificato motivo del lavoratore non dirigente, ma deve far riferimento a tutti gli elementi e circostanze che, in relazione al caso concreto, possano ritenersi idonei a privare di ogni giustificazione il recesso ad nutum del datore di lavoro nei confronti del dipendente che rivesta la qualifica di dirigente (cfr. Cass. 14 maggio 1993 n. 5531). In senso sostanzialmente analogo si é, poi, affermato che la nozione di "giustificatezza" del licenziamento del dirigente posta dalla contrattazione collettiva non coincide con quella di "giustificato motivo" ex art. 3 della legge n. 604/1966 (cfr. Cass. 9 giugno 1995 n. 6520); e si è, altresì, precisato che "se è consentito attraverso la contrattazione collettiva incidere sulla regolamentazione del rapporto lavorativo del dirigente equiparando il trattamento di quest'ultimo a quello degli altri lavoratori subordinati - in relazione ai singoli istituti non suscettibili di snaturarne le caratteristiche - non è permessa, invece, una totale equiparazione di disciplina o un accostamento tra normative con riguardo ad aspetti qualificanti lo specifico rapporto dirigenziale", con la conseguenza che, stante il profilo fiduciario (presupposto indispensabile per la continuazione del rapporto lavorativo del dirigente) il licenziamento di quest'ultimo "deve risultare coerente con la realtà aziendale, nel senso che ad essa deve riconnettersi, senza però potere acquistare la consistenza garantista degli altri lavoratori subordinati, perché altrimenti risulterebbe alterata la stessa specialità che l'ordinamento assegna al ruolo dirigenziale" (Cass. 25 novembre 1996 n. 10455).

Da ultimo si è ribadito che, pur dopo l'entrata in vigore della legge n. 108/1990, il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui agli artt. 1 e 3 della legge n. 604/1966, non avendo la suddetta legge inciso sull'art. 10 di detta legge ed aggiungendosi che la nozione di "giustificatezza" del licenziamento del dirigente, posta dalla contrattazione collettiva del settore, non coincide con quella di giustificato motivo di licenziamento di cui all'art. 3 della legge n. 604 cit., spettando pur sempre al datore di lavoro che intenda essere esonerato dall'obbligo di corrispondere l'indennità supplementare dimostrare la veridicità e la fondatezza dei motivi da lui addotti nonché la loro idoneità a giustificare il recesso (cfr. Cass. 29 gennaio 1999 n. 825, Cass. 13 marzo 1998 n. 2761).

In conformità a quest'ultimo orientamento - ribadito da Cass. n. 1591/2000 cit. - si rimarca che i comportamenti del dirigente, non integrabili una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato, ben possono giustificare il licenziamento del dirigente, con conseguente disconoscimento dell'indennità supplementare di cui alla contrattazione collettiva, allorquando risultino suscettibili di concretizzare una valida ragione di cessazione del rapporto lavorativo in ragione, appunto, della concreta posizione assunta nell'organizzazione aziendale dal dirigente stesso e del carattere spiccatamente fiduciario del relativo rapporto. In questa prospettiva il criterio su cui parametrare la legittimità del licenziamento del dirigente è dato dal rispetto da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.) e del divieto del licenziamento discriminatorio ex art. 3 legge n. 108/1990 o per motivo illecito, con l'utilizzabilità - nei casi in cui ci si trovi di fronte a condotte di inesatto o parziale adempimento anche dei generali criteri codicistici (artt. 1453 e segg. cod. civ.) - di valutazione della gravità dell'inadempimento secondo un criterio di proporzionalità e tenendo conto del venir meno della fiducia della parte non inadempiente alla ulteriore corretta esecuzione del contratto di lavoro.

In ogni caso, in base ai principi generali, l'onere probatorio in merito alla veridicità, fondatezza ed idoneità dei motivi addotti a giustificazione del recesso incombe sempre sul datore di lavoro, che non può ritenersi di certo assolto da tale onere adducendo - come nel caso di specie - che sostanzialmente il licenziamento sarebbe di per sé valido e legittimo (senza necessità, quindi, di alcuna prova) in relazione all'appartenenza del lavoratore da licenziare alla categoria dei "dirigenti".

Pervero, nella sentenza impugnata, il Giudice di appello ha considerato espressamente la qualifica di "dirigente" rivestita dal V. ("... il V. fu nominato dirigente nel 1987 .."), ritenendo non valido il motivo di giustificatezza del licenziamento asseritamente collegato dalla società datrice di lavoro alla "chiusura della filiale di Sesto Fiorentino", mentre - nella sentenza impugnata - è stato correttamente valutato che le mansioni dirigenziali del V. "ben potevano essere esercitate compiutamente anche in assenza della filiale, essendo decorso un lungo periodo di tempo fra l'inizio delle predette mansioni e l'apertura della filiale che, quindi, non poteva rappresentarne un necessario supporto".

La sentenza impugnata presenta, pertanto, una motivazione del tutto congrua ed esaustiva in relazione ai caratteri del rapporto di lavoro (dirigenziale) intercorso tra le parti e alle modalità del licenziamento ingiustificatamente adottato dalla società datrice di lavoro, sicché la decisione stessa non è suscettibile di alcuna delle censure che le sono state mosse dalla ricorrente.

In una siffatta corretta ottica, seguita dal Giudice di appello, non acquistano alcuna rilevanza le numerose questioni sollevate in questa sede dalla ricorrente, che attengono ad aspetti estranei ai motivi addotti dal Tribunale, da soli sufficienti a giustificarne le conclusioni e non permeabili in alcun modo dalle critiche ad essi sollevate, anche per la mancanza della "decisività" delle censure su pretesi vizi da motivazione in merito ai punti che il Tribunale avrebbe "dedotto dal fatto della apertura di una filiale in epoca successiva alla nomina del dirigente preposto una conseguenza irragionevole" e avrebbe ricollegato "la possibilità di reimpiego di un lavoratore con qualifica dirigenziale all'assunzione di altri dirigenti privi di tale qualifica".

In particolare - a conferma dell'inammissibilità delle cennate censure proposte ora in sede di legittimità - vale sintetim ribadire, al fine della verifica (negativa) della ricorrenza dei principi pertinenti ai profili essenziali della dedotta impugnativa, che: a) il difetto di motivazione, nel senso di insufficienza di essa, può riscontrarsi soltanto quando dall'esame del ragionamento svolto dal giudice e quale risulta dalla sentenza stessa emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero l'obiettiva deficienza, nel complesso di essa, del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, - come per le censure mosse ripetutamente, nella specie, dal ricorrente - quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte sul valore e sul significato attribuiti dal giudice del merito agli elementi delibati e, in sostanza, all'apprezzamento delle risultanze processuali effettuato, secondo i suoi compiti, dal giudice medesimo (Cass. n. 2114/1995); b) in tema di ammissibilità di impugnativa in sede di legittimità non può essere considerato vizio logico della motivazione la maggiore o minore rispondenza (alle aspettative della parte) della ricostruzione del fatto nei suoi vari aspetti, o un miglior coordinamento dei dati o un loro collegamento più opportuno e più appagante, in quanto tutto ciò rimane all'interno delle possibilità di apprezzamento dei fatti, e, non contrastando con la logica o con le leggi della razionalità, appartiene al convincimento del giudice - come, nella specie, per la decisione del Tribunale di Firenze - senza renderlo viziato ai sensi dell'art. 360, n. 5 cod. proc. civ. (Cass. n. 8923/1994).

IV -. Il secondo motivo di ricorso - con cui la ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per avere ritenuto che non sussisteva inadempimento del V. nel non avere prestato lavoro durante il periodo di preavviso - appare infondato in quanto il Tribunale di Firenze ha esattamente ritenuto che il comportamento del V. era improntato a buona fede avendo lo stesso comunicato (con le lettere in data 30 settembre 1998 e 7 ottobre 1998) alla datrice di lavoro la propria disponibilità a riprendere servizio dopo un periodo di malattia e non avendo ricevuto dalla società alcuna disposizione sulla modalità e sul luogo ove avrebbe dovuto, appunto, riprendere servizio.

Al riguardo, più che di "dimissioni per giusta causa" del V. durante il periodo di preavviso, deve parlarsi di giustificato inadempimento della prestazione lavorativa (comunque messa a disposizione dal lavoratore) durante il periodo di preavviso in relazione ad una peculiare ipotesi del principio "inadimplenti non est adimplendum", ribadito sempre che il rapporto di lavoro de quo si é estinto per recesso (non assistito dalla giustificatezza del motivo) da parte della società datrice di lavoro.

Sulla valutazione del comportamento in buona fede del V. durante il periodo di preavviso e del conseguente suo giustificato inadempimento ex art. 1455 cod. civ. è evidente come spetti al giudice del merito il relativo giudizio (cfr. Cass. n. 5114/1998), per cui - rimarcata la correttezza sotto il profilo logico - formale della motivazione del decisum del Tribunale di Firenze nella cennata valutazione - il riesame "nel merito" su tale richiesta in sede di legittimità dalla ricorrente non può trovare legittimazione e, pertanto, il relativo motivo di ricorso non può che essere respinto.

È da aggiungere che, considerata la natura "reale" del preavviso, l'art. 2118 (secondo comma) cod. civ. riconosce fondamentalmente alle parti il diritto (rispettivamente) del lavoratore a eseguire la prestazione lavorativa e del datore di lavoro a fruire di detta prestazione e, solo ed esclusivamente a seguito di accordo di entrambe le parti a rinunziare alla prestazione lavorativa durante il periodo di preavviso, può essere consentita la corresponsione di un'indennità sostitutiva del preavviso "lavorato": per cui, mancando il cennato accordo di entrambe le parti (e specificamente del lavoratore), il datore che non rende possibile l'espletamento della prestazione lavorativa durante il periodo di preavviso [cosi, come nella specie, non comunicando al lavoratore (che ne aveva fatto richiesta) il luogo ove questi avrebbe dovuto prestare servizio] si rende inadempiente con tutte le relative conseguenze. Proprio in relazione al principio dell'efficacia "reale" del preavviso consegue il corollario della persistente piena operatività del rapporto di lavoro e di tutte le obbligazioni connesse fino alla scadenza del termine di preavviso (così Cass. n. 6397/1987, Cass. n. 6178/1991, Cass. 1236/1997): sicché - accertati e considerati il giustificato inadempimento della prestazione lavorativa da parte del V. e l'indebito inadempimento dell'obbligazione retributiva (o della relativa indennità sostitutiva) a carico della società datrice di lavoro durante il periodo di preavviso - il secondo motivo di ricorso deve essere respinto.

V -. Anche il terzo motivo di ricorso, con cui la ricorrente censura la sentenza del Tribunale di Firenze per violazione dei canoni ermeneutici ex artt. 1363 e segg. cod. civ. in merito all'interpretazione dell'art. 29 del contratto collettivo nazionale di lavoro applicabile nella specie - nel punto in cui ha fissato l'indennità supplementare nella misura di ventisette mensilità di retribuzione ritenendo che la cennata misura fosse rigidamente predeterminata e non derogabile dal giudice in preteso contrasto con il sedicesimo comma dell'art. 29 cit. che affidava al collegio di conciliazione ed arbitrato (ex quindicesimo comma) il compito di stabilire detta indennità supplementare in una "misura graduabile" tra un "minimo" pari alle mensilità di preavviso e un "massimo" pari al corrispettivo di diciotto mesi di preavviso - si appalesa infondato.

Infatti, del tutto inesattamente la ricorrente, nell'indicare la disposizione contrattuale che il giudice doveva applicare per stabilire la misura dell'indennità supplementare, si è riferita ai commi sedicesimo e diciassettesimo dell'art. 29 del c.c.n.l. - che, come si è rilevato, attiene alla determinazione della misura dell'indennità supplementare da parte del collegio arbitrale (e in questo caso effettivamente tale misura è graduabile tra un minimo e un massimo) - mentre, nella specie, la disposizione applicabile - e che è stata proprio applicata dal Tribunale di Firenze come si evince testualmente dalla motivazione della sentenza impugnata - è quella contenuta sub diciannovesimo comma dell'art. 29 cit.

concernente la determinazione della misura dell'i.s. da parte del giudice "nell'ipotesi di ricorso giudiziario": indennità supplementare che, effettivamente, è fissata nella misura di ventisette mensilità rigidamente predeterminata e non derogabile.

In ogni caso, la censura in esame - riferita alla "violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 e segg. cod. civ." - appare inammissibile in quanto la parte, che vuole denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nella interpretazione di un contratto da parte del giudice del merito, deve specificare i canoni ermeneutici ex artt. 1362 e segg. cod. civ. in concreto violati ed il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia da essi discostato, perché, in caso diverso, la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice e la proposta di una diversa valutazione investono il merito delle valutazioni del giudice e sono, perciò, inammissibili in sede di legittimità (Cass. n. 7641/1994).

Al riguardo, l'interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune è riservata, data la natura dei contratti stessi, all'esclusiva competenza del giudice di merito, le cui valutazioni soggiacciono, in sede di legittimità, ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale e al controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente: sia la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica, sia la denuncia del vizio di motivazione esigono una specifica indicazione (ossia la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata la anzidetta violazione e delle ragioni della obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito) non potendo le censure risolversi, in contrasto con la qualificazione loro attribuita dal ricorrente, nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata (Cass. n. 11053/2000).

Vizio di inammissibilità a cui chiaramente non si sottrae il ricorso in esame che ha denunziato del tutto genericamente (sotto il profilo delle regole ermeneutiche che sarebbero state malamente applicate dal Giudice di appello) "la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 e segg. cod. civ.".

Sotto diverso profilo il ricorso non può consistere - come è avvenuto per la censura considerata - nell'affermazione di mere opinioni sul contenuto degli accordi collettivi in questione non seguite da alcuna specifica doglianza sulla interpretazione datane nella sentenza impugnata, e ciò per il principio dell'"autosufficienza del ricorso" che costituisce un canone al quale la giurisprudenza di questa Corte si è sempre attenuta in modo sostanzialmente rigoroso e che la ricorrente non ha nella specie sicuramente osservato, non specificando il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sarebbe discostato dai canoni ermeneutici in concreto violati.

VI -. In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto dalla "T." s.r.l. deve essere respinto e la ricorrente, essendo rimasta soccombente, va condannata al pagamento - complessivamente a favore dei controricorrenti - delle spese del presente giudizio di cassazione liquidate, insieme agli onorari difensivi, come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese che liquida complessivamente in euro 13,00, oltre a euro tremila per onorario.

Così deciso in Roma il 16 aprile 2002.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 26 LUGLIO 2002.