Conteggi lavoro

martedì 22 maggio 2012

In caso di sottoposizione dell'ente datore di lavoro a liquidazione coatta amministrativa, l'azione proposta dal lavoratore dipendente diretta all'accertamento della illegittimità del licenziamento, deve essere proposta davanti al giudice del lavoro - Cass. SU sent. n. 141 del 10.01.2006

Svolgimento del processo

Con ricorso del 18 ottobre 1994 al Pretore di Reggio Calabria, A. E. esponeva di essere stato licenziato per assenza ingiustificata, il 22 giugno precedente, dal datore di lavoro Istituto di patronato per l'assistenza sociale. Assumendo la mancata osservanza delle garanzie procedimentali di cui alla L. 20 maggio 1970 n. 300, art. 7, la concreta assenza di un giustificato motivo e la violazione di alcune regole contrattuali, l' A. chiedeva che il Pretore dichiarasse l'illegittimità del licenziamento e condannasse l'Istituto alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno.

Rimasto contumace il convenuto, il Ministero del lavoro disponeva la liquidazione dell'Istituto con D.M. 26 ottobre 1995, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 262 del 9 novembre 1995 e seguito da altro D.M. 17 gennaio 1996, in G.U. n. 26 del 1 febbraio 1996, nel cui art. 3, era stabilita l'applicazione delle norme in materia di liquidazione coatta amministrativa.

L' A. proponeva appello e con sentenza del 28 marzo 2002 il Tribunale riteneva regolare la notifica dell'impugnazione e, nel merito, ordinava la reintegrazione dell'appellante nel posto di lavoro e dichiarava improseguibili le domande di condanna al pagamento di somme.

Esso riteneva infatti che, posta l'impresa in liquidazione coatta amministrativa, fosse pur sempre proseguibile davanti al giudice del lavoro il processo inteso a conseguire la dichiarazione di illegittimità del licenziamento nonchè la reintegrazione.

Nel merito il Collegio considerava credibile l'affermazione del lavoratore, resa ai fini della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1, secondo cui l'Istituto occupava più di sessanta dipendenti, anche per l'assenza di prova contraria da parte del datore di lavoro, che ne era gravato per avere la disponibilità dei relativi mezzi.

Contro questa sentenza ricorre per Cassazione R.S., quale commissario liquidatore dell'Istituto di patronato per l'assistenza sociale.

L'intimato A. non si costituiva.

Con ordinanza del 27 gennaio 2005 la Sezione lavoro di questa Corte, ravvisato un contrasto giurisprudenziale sulla questione della distribuzione dell'onere di provare il numero dei dipendenti dell'organizzazione datrice di lavoro, rimetteva gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione della causa alle Sezioni unite ai sensi dell'art. 374 cod. proc. civ..

Il Primo Presidente decideva in conformità.

Il ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Col primo motivo il ricorrente sostiene la nullità della sentenza impugnata per violazione del R.D. 16 marzo 1942 n. 267, art. 200, essendo stati gli atti processuali, successivi al provvedimento ordinante la liquidazione dell'Istituto datore di lavoro (provvedimento pubblicato sulla Gazzetta ufficiale ai sensi del R.D. cit., art. 197), notificati allo stesso Istituto contumace nella persona del legale rappresentante invece che la commissario liquidatore, unico legittimato a stare in giudizio per tutti i rapporti patrimoniali, ai sensi del capoverso dell'art. 200 cit..

Il motivo non è fondato.

Posto che il provvedimento ordinante la liquidazione di una persona giuridica non costituisce giusta causa (art. 2119 cod. civ., comma 2) e neppure, di per sè, giustificato motivo di risoluzione del rapporto di lavoro, il Tribunale nella sentenza qui impugnata ha creduto di uniformarsi alla massima, più volte enunciata da questa Corte, secondo cui, nel caso di sottoposizione dell'impresa a liquidazione coatta amministrativa, il lavoratore dipendente deve proporre o proseguire davanti al giudice del lavoro le azioni non aventi ad oggetto la condanna al pagamento di una somma di denaro, come quelle tendenti alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento o alla reintegrazione nel posto di lavoro, mentre divengono improponibili o improseguibili temporaneamente, ossia per la durata della procedura amministrativa di liquidazione, le azioni intese ad una condanna pecuniaria (Casa. 4 aprile 1998 n. 3522, 27 luglio 1999 n. 8136, 20 luglio 1995 n. 7907, 5 dicembre 2000 n. 15477).

Ciò premesso, il Tribunale ha emesso la sentenza nei confronti dell'Istituto di patronato "in liquidazione coatta amministrativa ed in persona del commissario liquidatore" (così nell'epigrafe) e nella parte narrativa ha espressamente constatato la regolare notifica dell'atto d'appello. Nè dai documenti depositati ora dal ricorrente ai sensi dell'art. 372 cod. proc. civ., comma 1, risulta alcun dato idoneo ad indicare la non regolare formazione del contraddittorio.

2. Col secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 414 e 434 cod. proc. civ., sostenendo che, al fine di accertare il numero dei dipendenti del datore di lavoro e così di dichiarare il diritto dell'appellante alla reintegrazione della L. n. 300 del 1970, ex art. 18, il Tribunale prese in considerazione un documento, ossia uno statuto dell'ente datore di lavoro, non ritualmente prodotto dal lavoratore-attore in giudizio.

Col terzo motivo il ricorrente deduce la violazione dell'art. 18 cit., e L. 11 luglio 1966 n. 604, art. 8, artt. 2697 e 1218 cod. civ., sostenendo il mancato assolvimento, da parte dello stesso lavoratore, dell'onere di provare il detto numero di dipendenti, e quindi l'illegittimità dell'ordine giudiziale di reintegrazione.

3. I due motivi, da esaminare insieme perchè connessi, non sono fondati.

La questione che il ricorrente sottopone a questa Corte è se la L. 20 maggio 1970 n. 300, art. 18, comma 1, modificato dalla L. 11 maggio 1990 n. 108, art. 1, nel subordinare l'ordine giudiziale di reintegrazione del prestatore di lavoro illegittimamente licenziato a certe dimensioni dell'organizzazione produttiva datrice di lavoro, commisurate sul numero delle persone occupate (cosiddetto requisito dimensionale), imponga al detto prestatore-attore in giudizio l'onere di provare il requisito, oppure richieda al datore-convenuto in giudizio la prova negativa ossia del non raggiungimento di quelle dimensioni.

Il dato normativo di riferimento, ossia l'art. 18 cit., è il seguente: "Ferme restando l'esperibilità delle procedure previste dalla L. 15 luglio 1966 n. 604, art. 7, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'art. 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro" (comma 1).

"Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui al comma 1 si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unita lavorative fa riferimento all'orario previsto della contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea retta ed in linea collaterale" (comma 2).

L'ordine giudiziale di reintegrazione nel posto di lavoro realizza in forma specifica la tutela risarcitoria conseguente alla lesione, arrecata attraverso il licenziamento illegittimo, del diritto soggettivo al lavoro, spettante al prestatore ai sensi dell'art. 1 Cost., art. 4 Cost., comma 1, e art. 35 Cost., comma 1, Cost., L. 15 luglio 1966 n. 604, e artt. 1 e 18 ora cit..

La L. n. 108 del 1990, art. 4, comma 1, sottrae all'applicazione di questo art. 18 cit. i datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto. L'attività degli istituti di patronato e di assistenza sociale non è politica nè sindacale poichè non concorre alla composizione dei contrasti di interessi collettivi ed in particolare dei conflitti relativi ai processi produttivi. Funzione degli Istituti, infatti, è di assistere i lavoratori ed i loro aventi causa per il conseguimento, in via amministrativa o giudiziaria, delle prestazioni previdenziali o di quiescenza (D.Lgs. C.p.S. 29 luglio 1947, n. 804, art. 1) onde la loro attività attiene non alla formazione e nascita, in sede legale o convenzionale, dei rapporti obbligatori a carico degli enti di previdenza o di assistenza o dei datori di lavoro, bensì all'attuazione degli stessi rapporti. Altre funzioni possono essere previste nello statuto (vedi ora L. 30 marzo 2001 n. 152, art. 4, comma 1, lett. f) ma nulla ha eccepito in proposito la parte interessata nel corso di questo processo.

In conclusione nella disposizione della L. n. 108 del 1990, art. 4, comma 1, non possono comprendersi gli istituti di patronato e di assistenza sociale.

Qualora la sopra detta tutela specifica, chiamata anche tutela reale, non possa operare per difetto di uno dei requisiti posti dallo stesso art. 18 cit., il lavoratore illegittimamente licenziato può giovarsi del risarcimento pecuniario (salve alcune eccezioni che qui non interessano) previsto dalla L. 11 luglio 1966 n. 604 e L. n. 108 del 1990, art. 2, e realizzante la cosiddetta tutela obbligatoria.

In breve, la concreta verifica del testè detto "requisito dimensionale" dell'impresa o comunque dell'organizzazione produttiva da luogo alla tutela reale mentre la sua mancanza lascia spazio alla sola tutela obbligatoria.

4.1. La maggior parte delle sentenze di questa Corte impone al lavoratore-attore in giudizio l'onere di provare il requisito, ravvisandovi un elemento costitutivo del "diritto alla reintegrazione" dedotto in giudizio e facendo conseguente e piana applicazione dell'art. 2697 cod. civ., comma 1, (Cass. Sez. un. 4 marzo 1988 n. 2249, Sez. Lav. 28 aprile 1988 n. 3229, 3 luglio 1991 n. 7286, 13 febbraio 1993 n. 1815, 16 aprile 1991 n. 4048, 18 marzo 1996 n. 2268, 18 aprile 1995 n. 4337, 7 dicembre 1998 n. 12375, 16 maggio 1998 n. 4948, 27 agosto 2003 n. 12579, 1 settembre 2003 n. 12747).

La dottrina che appoggia questo orientamento adduce, quale argomento di rinforzo, un asserito carattere "generale" della tutela obbligatoria, ed il connesso carattere eccezionale della tutela reale, che sarebbe reso palese dalle espressioni letterali usate dal legislatore nello stesso art. 18 cit. e che addosserebbe al lavoratore l'onere di provare il suo diritto ad ottenere il rimedio più intenso, ma eccezionale.

La stessa dottrina esclude poter valere in materia le regole del "diritto comune", trattandosi di "problema all'evidenza tutto interno al regime speciale del licenziamento". Essa assume, in altre parole, la non riducibilità al diritto civile dei rimedi contro il licenziamento illegittimo.

4.2. L'imposizione al prestatore di lavoro dell'onere di fornire al giudice dati relativi al personale dell'impresa è apparso eccessivo ad una parte della giurisprudenza, la quale, precisando doversi aver riguardo al numero medio degli occupati in relazione alle normali esigenze produttive e non al numero nel momento di intimazione del licenziamento, chiede all'imprenditore la relativa prova (Cass. n. 1815 del 1993), così come fa nei casi di esclusione della tutela reale per le cosiddette organizzazioni di tendenza, indicate nella L. n. 108 del 1990, citato art. 4, comma 1, (Cass. n. 4337 del 1995).

Questo orientamento tanto più dovrebbe valere quando trattisi di calcolare il numero dei lavoratori dipendenti tenendo conto delle esclusioni previste nell'art. 18 sopra riportato, comma 2.

Estranee ai rigorosi termini della questione di diritto qui in esame sono le frequenti affermazioni secondo cui - fermo restando l'onere probatorio a carico del datore di lavoro - tuttavia il giudice può ritenere provato il requisito dimensionale sulla base della mancata contestazione (art. 416 cod. proc. civ., comma 3) da parte del datore di lavoro convenuto (Cass. 16 aprile 1991 n. 4048, 5 febbraio 1993 n. 1429, nn. 4948 e 12375 del 1998 cit., 19 gennaio 2005 n. 996) o della rinuncia alla relativa eccezione da parte del suo procuratore (Cass. 18 gennaio 2005 n. 881), o dei documenti comunque acquisiti al processo (Cass. 12 febbraio 1985 n. 1202, 27 marzo 2003 n. 4666) e in particolare del libro matricola esibito su suo ordine (Cass. n. 12747 del 2003) o del notaio (Cass. 19 novembre 1998 n. 11701, 25 novembre 2004 n. 22271, qui si trattava della s.p.a. Rete ferroviaria italiana).

4.3. In tempo recente la Corte si è espressa in senso opposto, ossia ha ritenuto gravare sul datore di lavoro, non importa se attore o convenuto in giudizio, l'onere di provare l'inesistenza del requisito occupazionale e perciò l'impedimento all'applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 (Cass. 22 gennaio 1999 n. 613, 17 maggio 2002 n. 7227).

In queste pronunce la Corte osserva che la tutela reintegratoria è più vicina alle scelte di valore del legislatore in tema di responsabilità contrattuale, mentre la attenuata tutela risarcitoria si distacca maggiormente da quelle scelte.

Secondo questa giurisprudenza fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l'attività e, sul piano processuale, dell'azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l'illegittimità dell'atto espulsivo, mentre le dimensioni dell'impresa, inferiori ai limiti dell'art. 18 sopra detto, costituirebbero, insieme al giustificato motivo del licenziamento (L. n. 604 del 1966, art. 5), fatti impeditivi del diritto soggettivo dedotto in giudizio e dovrebbero essere perciò provati dal datore di lavoro. Con l'assolvimento di quest'onere probatorio il datore dimostrerebbe che l'inadempimento degli obblighi derivantigli dal contratto di lavoro non è a lui imputabile (art. 1218 cod. civ.) e che comunque il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio al rimarcimento pecuniario.

A questo argomento le sentenze nn. 613 del 1999 e 7227 del 2002 aggiungono, per porre a carico del datore di lavoro l'onere della prova, la necessità di non rendere troppo difficile l'esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della "disponibilità" dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell'impresa.

5. Queste Sezioni unite ritengono di dover seguire il terzo degli orientamenti ora descritti.

A norma dell'art. 2697 cod. civ. chi vuoi far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento (comma 1), mentre a chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda (comma 2).

Al giudice occorre perciò, una volta identificato il fatto costitutivo, ossia quello a cui è subordinata la tutela giuridica, nonchè quello impeditivo, ossia quello capace di escludere che la fattispecie già perfetta possa esplicare i suoi effetti, ripartire l'onere probatorio fra attore e convenuto in giudizio secondo lo schema logico regola-eccezione.

E' però la disciplina legislativa sostanziale a descrivere la detta fattispecie e così ad indicare i fatti costitutivi e quelli impeditivi o estintivi, onde è consueta l'affermazione secondo cui nell'art. 2697 cit. va ravvisata una disposizione in bianco, ossia destinata ad essere completata da quella, per lo più sostanziale, dettata per il caso concreto: essa non riguarda specifici tipi di domande nè impone temi fissi di prova.

Tutto ciò è affermato non solo in dottrina ma ai trova nella più recente giurisprudenza di questa Corte, la quale ha altresì precisato che sulla distribuzione dell'onere della prova possono incidere anche le vicende processuali, quante volte il successo dell'iniziativa di parte dipenda dal relativo corredo probatorio.

Così è possibile che l'appellante debba dimostrare la fondatezza delle sue censure onde ottenere la riforma del capo di decisione impugnato (Sez. Un. 23 dicembre 2005 n. 28498) Sez. Un. 30 ottobre 2001 n. 13533 ha imposto alla parte, attrice in giudizio per la risoluzione del contratto per inadempimento, il solo onere di provare il contenuto del negozio, ossia il suo credito, insieme all'onere di allegare l'inadempimento, mentre ha gravato il debitore-convenuto dell'onere di provare l'adempimento. In tal modo la Corte ha ripartito il peso della prova facendo espresso riferimento al principio della riferibilità, o vicinanza, o disponibilità del mezzo (è più facile al debitore dimostrare il fatto positivo di avere adempiuto che non al creditore di dimostrare l'opposto fatto negativo); principio riconducibile all'art. 24 Cost., che connette al diritto di azione in giudizio il divieto di interpretare la legge in modo da renderne impossibile o troppo difficile l'esercizio (Corte Cost. 21 aprile 2000 n. 114), e sul quale, come s'è detto, si fondano anche le sopra richiamate sentenze di questa Corte nn. 613 del 1999 e 7227 del 2002.

Spetta in conclusione al giudice-interprete, quando il legislatore non vi abbia provveduto espressamente, di ricostruire la fattispecie sostanziale controversa, identificando gli elementi costitutivi del diritto soggettivo dedotto in giudizio e richiedendo all'attore la relativa prova.

6. Si tratta pertanto di stabilire se il cosiddetto e qui più volte evocato "requisito dimensionale", o "di occupazione" sia o no da considerare fra gli elementi costitutivi del diritto soggettivo a conservare il posto di lavoro, vale a dire ad esservi reintegrato una volta dichiarata l'illegittimità del licenziamento.

Per la risposta positiva una parte della dottrina sostiene che oggetto della tutela giudiziaria di questo diritto sarebbe, in via di regola, l'obbligo di risarcimento pecuniario e soltanto in via di eccezione l'obbligo di reintegrazione di cui all'art. 18 cit., comma 1. In sostanza il regime ordinario sarebbe, secondo questa dottrina, quello della stabilità obbligatoria, ossia della tutela risarcitoria, in cui non occorrerebbe provare il requisito dimensionale, mentre il regime della stabilità reale costituirebbe, quale eccezione, l'oggetto di un distinto diritto soggettivo, di cui la dimensione occupazionale sarebbe elemento costitutivo, con prova a carico del lavoratore-attore in giudizio.

Conseguenza di tutto ciò sarebbe che l'accoglimento della domanda di reintegrazione conseguirebbe alla duplice prova del licenziamento e del requisito ora detto.

Ma questa tesi, che considera la tutela per equivalente del diritto soggettivo come la regola e la tutela specifica come l'eccezione, non può essere condivisa.

Già nell'ambito generale del diritto privato l'art. 2058 cod. civ. nega un rapporto regola-eccezione così fatto ed anzi lo capovolge:

l'illecito aquiliano - ma la norma si estende all'illecito contrattuale - attribuisce al danneggiato (nel rapporto contrattuale, al creditore insoddisfatto) la "reintegrazione in forma specifica", se giuridicamente e materialmente possibile (comma 1) ed il risarcimento "per equivalente" alla subordinata condizione che la reintegrazione risulti, secondo il giudice, eccessivamente onerosa per il debitore (comma 2).

Sulla base di queste disposizioni già la dottrina immediatamente successiva all'entrata in vigore del codice del 1942 notò come il legislatore avesse stabilito anzitutto il diritto del creditore "all'esatto adempimento della prestazione dovuta" e come "soltanto in linea subordinata ed eventuale" questa potesse ridursi al risarcimento del danno. Il legislatore del novecento aveva così superato "l'anacronistica reminiscenza del diritto romano" (542^, 1^, 13, 1 "... in pecuniam numeratam candamnatur ...") recepita nell'art. 1142 del codice civile francese, secondo cui ogni obbligazione di fare o di non fare si risolve (se resout) nella prestazione di danni e interessi nel caso di inadempimento; reminiscenza già scomparsa del resto già nel codice tedesco, di fine ottocento, il quale nel par. 280, comma 3, permette il risarcimento del danno in luogo della prestazione (Schadenersatz statt der Leistung) solo sulla base di determinati e circoscritti presupposti.

La sostituzione di un'obbligazione di risarcimento all'azione primitiva - si notava ancora in dottrina - non è dunque come in diritto romano un fenomeno generale e costante, collegato in modo necessario e per così dire automatico al far valere in giudizio l'obbligazione, bensì un fenomeno affatto speciale e saltuario, condizionato da particolari circostanze di fatto.

Oggi l'obbligazione di ricostruire la situazione di fatto anteriore alla lesione del credito rendendo così possibile l'esatta soddisfazione del creditore, non tenuto ad accontentarsi dell'equivalente pecuniario, costituisce la traduzione nel diritto sostanziale del principio, affermato già dalla dottrina processuale degli anni trenta e poi ricondotto all'art. 24 Cost., (Corte Cost. 24 giugno 1994 n. 253, 10 novembre 1995 n. 483), secondo cui il processo (ma potrebbe dirsi: il diritto oggettivo, in caso di violazione) deve dare alla parte lesa tutto quello e proprio quello che le è riconosciuto dalla norma sostanziale (da ult. Casa. Sez. un. 5 luglio 2004 n. 12270).

Nè la difficoltà o l'impossibilità materiale di attuare in sede esecutiva questo principio costituzionalmente rilevante, dovute all'inesistenza nel nostro ordinamento di un sistema atipico di misure coercitive, può incidere sulla questione sostanziale qui in esame, relativa al rapporto regola-eccezione fra risarcimento specifico e per equivalente; la difficoltà di predisporre norme esecutive di più intensa garanzia del creditore non può influire sullo statuto civilistico del rapporto obbligatorio.

7. Questa conclusione valida sul piano generale serve a maggior ragione nel diritto del lavoro non solo perchè qualsiasi normativa settoriale non deve derogare al sistema generale senza necessità, come si dirà tra breve, ma anche perchè il diritto del lavoratore al proprio posto, protetto dagli artt. 1, 4 e 35 Cost., subirebbe una sostanziale espropriazione se ridotto in via di regola al diritto ad una somma. Da ciò la necessità non solo di interpretare restrittivamente l'art. 2058 cit., comma 2, ma anche di considerare come eccezionali le norme che escludono o limitano la tutela specifica. In tal senso va intesa la sentenza della Corte Costituzionale 7 febbraio 2000 n. 46, secondo cui la tutela reale del lavoratore può essere limitata discrezionalmente dal legislatore: questi effettua il bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti e ben può ritenere, come nella materia qui in esame, che le ragioni dell'impresa di piccole dimensioni debbano prevalere sulla tutela specifica del lavoratore illegittimamente licenziato. Non v'è però ragione di negare che questa limitazione del diritto al lavoro debba essere affidata al soggetto interessato ossia al datore di lavoro, e di affermare al contrario che essa debba aggiungersi agli elementi costitutivi di quel diritto, con conseguenze in ordine alla ripartizione dell'onere della prova.

8. Nè le tesi, sostenute da una parte dalla stessa dottrina privatistica, che pongono sullo stesso piano la tutela specifica del diritto soggettivo a quella per equivalente, connettendola prima ai diritti assoluti e la seconda ai diritti di credito, possono trovare applicazione nei rapporti di lavoro subordinato. A ciò ostano non solo le ragioni già dette ma anche la rilevanza degli interessi coinvolti, che impediscono di ricondurre quei rapporti esclusivamente a fattispecie di scambio e, nell'ambito di queste, di ridurre la posizione del prestatore di lavoro semplicemente a quella di titolare del credito avente ad oggetto la retribuzione. Al contrario, il prestatore, attraverso il lavoro reso all'interno dell'impresa, da intendere come formazione sociale nei sensi dell'art. 2 Cost., realizza non solo l'utilità economica promessa dal datore ma anche i valori individuali e familiari indicati nell'art. 2 cit. e nel successivo art. 36 (cfr. Cass. Sez. un. 12 novembre 2001 n. 14020).

Subito dopo l'entrata in vigore della Carta fondamentale un'autorevole dottrina civilistica qualificò come assoluto lo stesso diritto alla retribuzione.

Pertanto, anche se si ammettesse la validità dello schema "diritto assoluto-tutela specifica; diritto di credito-tutela risarcitoria", esso non potrebbe applicarsi allo status del lavoratore subordinato.

9. E' necessario ancora dare conto della tendenza di una parte della dottrina lavoristica a considerare la disciplina dei licenziamenti, così cosse altri istituti del settore, quale regime speciale, avulso dal "diritto comune".

Da ciò deriverebbe la non riconducibilità della L. n. 300 del 1970, art. 18, e della L. n. 604 del 1966 al modello codicistico del risarcimento in forma specifica o per equivalente. La tendenza non appare però da seguire perchè contraria al principio di unità e coerenza dell'ordinamento, riconducigli al principio di eguaglianza sostanziale di cui al capoverso dell'art. 3 Cost..

Già in sede di fondazione del diritto del lavoro quale disciplina distinta dal diritto civile, or è circa un secolo, venne l'appello a non isolare i relativi problemi dai principi generali del diritto delle obbligazioni, cedendo al "cieco empirismo", mentre il richiamo all'unità dell'ordinamento quale postulato non logico ma di giustizia percorre il diritto non solo italiano nell'età delle specializzazioni.

Non è possibile poi adoperare quale argomento sistematico, onde dimostrare l'eccezionalità della tutela reintegratola, "il numero notevole dei destinatari del precetto legislativo, nella capillare ed articolata diffusione nel territorio di piccole e medie imprese" (così Cass. n. 4337 del 1995 cit. condivisa dal Pubblico Ministero in udienza). L'esigenza di contenere gli oneri economici a carico di queste imprese ben può indurre il legislatore ad incentivi ed agevolazioni da attribuire attraverso scelte di diritto sostanziale, insindacabili a qualsiasi livello di giurisdizione (artt. 101 Cost., comma 2; L. 11 marzo 1953 n. 87, art. 28), ma non può influire sull'interpretazione delle norme che disciplinano il processo.

10. Per quanto riguarda infine il criterio di distribuzione dell'onere della prova basato sulla vicinanza o disponibilità dei relativi strumenti e valorizzato sul piano generale da queste Sezioni unite con la riportata sentenza n. 13533 del 2001 nonchè, nell'interpretazione L. 300 del 1970, art. 18, dalle sentenze n. 613 del 1999 e 7227 del 2002, esso tanto più deve valere quando trattasi del "requisito occupazionale", vale a dire della forza-lavoro dell'impresa, risultante non soltanto dal numero degli occupati ma anche ed eventualmente dal loro status nell'impresa, o anche personale, come risulta espressamente dal sopra riportato art. 18, comma 2.

Rigettato il ricorso, sulle spese processuali non provvede poichè l'intimato non si è costituito.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2005.