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venerdì 4 maggio 2012

Il difetto di colpa del datore di lavoro nel determinarsi al licenziamento, derivante dalle giustificazioni, erronee o fuorvianti del lavoratore - Cass. sent. n. 11401 del 30.05.2005

Svolgimento del processo

Con la sentenza ora denunciata, la Corte d'appello di Salerno - in riforma della sentenza n. 4290/2002 del Tribunale della stessa sede - dichiarava illegittimo il licenziamento intimato dalla Ass. G. S.p.a. al proprio dipendente A. L. - ordinandone la reintegrazione nel posto di lavoro, condannando la società al risarcimento del danno, nella misura di cinque mensilità (oltre che al pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali) e compensando tra le parti le spese del doppio grado di giudizio - essenzialmente in base ai rilievi seguenti:

la contestazione degli addebiti ha per oggetto soltanto la presentazione di denuncia in sede penale, che successivamente ha dato luogo a decreto di archiviazione, contro altri dipendenti della società per avere percepito compensi chilometrici ritenuti indebiti (non essendo munita di patente di guida la lavoratrice che ne ha fruito) - qualificata, tuttavia, come insubordinazione -non risultando precisate le contestate "gravi carenze nello svolgimento del lavoro";

per il lavoratore con mansioni e qualifica di ispettore di organizzazione - che dipenda, come nella specie, direttamente dall'ufficio del personale della Direzione generale della società - è sufficiente che risulti attuata, presso la sede della stessa Direzione generale (in Mogliano Veneto), la pubblicità del codice disciplinare, peraltro non necessaria in caso di insubordinazione;

non può ritenersi non immediata la contestazione dell'addebito e l'intimazione del licenziamento, avendo la società atteso la decisione, in sede penale, sulla denuncia;

pur essendo illecito il comportamento addebitato al lavoratore, appare sproporzionato, tuttavia, il licenziamento per giusta causa, ritenendosi sufficiente, invece, una sanzione disciplinare conservativa;

il difetto di colpa del datore di lavoro - a fronte del comportamento del lavoratore, di contestazione del decreto di archiviazione - impone di limitare il risarcimento alla misura minima garantita (cinque mensilità);

"avuto riguardo alla peculiarità della fattispecie esaminata, si ritiene equo compensare tra le parti per intero le spese del doppio grado di giudizio".

Avverso la sentenza d'appello, la Ass. G. S.p.a. propone ricorso per Cassazione, affidato a tre motivi.

L'intimato A. L. resiste con controricorso e propone, contestualmente, ricorso incidentale - affidato a cinque motivi ed illustrato da memoria - al quale resiste, con controricorso, la ricorrente principale.

Motivi della decisione

1. Preliminarmente va disposta la riunione del ricorso incidentale a quello principale, in quanto proposti separatamente contro la stessa sentenza (ari 335 c.p.c.).

2. Con il primo motivo del ricorso principale - denunciando vizio di motivazione (art. 360, n. 3 e 5, c.p.c.) - la Ass. G. s.p.a. censura la sentenza impugnata - per avere ritenuto che controparte avesse presentato, in buona fede, denuncia penale contro altri dipendenti della società, nel convincimento che il fatto denunciato (rimborso delle spese di viaggio a dipendente sprovvista di patente di guida) fosse effettivamente illegale - sebbene la stessa sentenza ritenga il contrario - in ordine, appunto, alla legittimità del medesimo fatto - e, peraltro, inducessero ad opposta V conclusione "risultanze istruttorie di segno opposto", concernenti - tra l'altro - la "decisa intimazione al L. di desistere dalla sue accuse di illegittimità dei rimborsi di spesa alla Dott. Cillis".

Con il secondo motivo - denunciando vizio di motivazione (art. 360, n. 3 e 5, c.p.c.) - la ricorrente principale censura la sentenza impugnata - per avere ritenuto che controparte avesse presentato denuncia penale contro altri dipendenti della società, soltanto per "evitare un suo coinvolgimento in una vicenda da lui (infondatamente) ritenuta illegale", senza alcun "intento di sostituirsi agli organi statutariamente dotati del potere di rappresentanza della società" - sebbene risultasse il contrario, tra l'altro, dallo stesso tenore letterale della denuncia.

Con il terzo motivo - denunciando (ai sensi dell'art. 360, n. 3 e 4, c.p.c.) violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 112 cpc) - la ricorrente principale censura la sentenza impugnata - per avere omesso di pronunciare sulla propria domanda di accertamento della sussistenza, quantomeno, di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento - sebbene la domanda stessa fosse stata proposta in primo grado e riproposta, sia pure in subordine, nel giudizio d'appello (ai sensi dell'art. 346 c.p.c.).

Con il primo motivo del ricorso incidentale - denunciando (ai sensi dell'alt 360, n. 3, c.p.c.) violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 18 della legge n. 300 del 1970) - A. L. censura la sentenza impugnata per avere liquidato il risarcimento del danno - subito per il licenziamento illegittimo - alla misura minima garantita (pari a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto).

Con il secondo motivo - denunciando (ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2 della legge n. 604 del 1966, 7 della legge n. 300 del 1970) - il ricorrente incidentale censura la sentenza impugnata, per avere ritenuto specifica la contestazione degli addebiti.

Con il terzo motivo - denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 7 della legge n. 300 del 1970), nonchè vizio di motivazione (art. 360, n. 3 e 5, c.p.c.) - il ricorrente incidentale censura la sentenza impugnata, per avere ritenuto che, nella contestazione degli addebiti, fosse stato osservato il principio di immediatezza.

Con il quarto motivo - denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2982 c.c., 18 della legge n. 300 del 1970, 4 della legge 11 maggio 1990, n. 108), nonchè vizio di motivazione (art. 360, n. 3 e 5, c.p.c.) - il ricorrente incidentale censura la sentenza impugnata - per non avere dichiarato al nullità del proprio licenziamento - sebbene fosse mancata, nella specie, la pubblicità del codice disciplinare.

Con il quinto motivo - denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 91 e 92 c.p.c.), nonchè vizio di motivazione (art. 360, n. 3 e 5, c.p.c.) - il ricorrente incidentale censura la sentenza impugnata - per avere disposto la compensazione delle spese del doppio grado - motivando con un "fugace cenno ad una "peculiarità della fattispecie esaminata" non meglio definita".

All'esito dell'esame congiunto dei ricorsi - suggerito dalla reciproca connessione - risulta fondato il primo motivo del ricorso incidentale, mentre risultano infondati gli altri motivi dello stesso ricorso, nonchè il ricorso principale.

Il quarto motivo precede, tuttavia, nella trattazione - per evidenti ragioni di pregiudizialità logico-giuridica - il secondo ed il terzo motivo del ricorso incidentale, nonchè - nell'ordine - il ricorso principale, il primo ed il quinto motivo dello stesso ricorso incidentale.

3. Invero la Corte costituzionale (sentenza n. 204 del 29 novembre 1982), ha sostanzialmente esteso - ai licenziamenti disciplinari - soltanto alcune delle garanzie procedimentali, che sono previste (dall'articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, cd. Statuto del lavoratori) per le sanzioni conservative.

Si tratta - per quel che qui interessa - della cd. pubblicità del codice disciplinare (di cui al comma 1), che sancisce "il principio fondamentale, per il quale chi è perseguito per un'infrazione dev'essere posto in grado di conoscere l'infrazione stessa e la sanzione", sulla falsariga del principio di legalità (nullum crimen, nulla poena sine lege), che è previsto per i reati, gli illeciti amministrativi e le sanzioni rispettive (art. 1 c.p., art. 1 legge 24 novembre 1981, n. 689).

Con specifico riferimento a tale garanzia (pubblicità del codice disciplinare, appunto), le sezioni unite di questa Corte (sentenza n. 4823 del 1987) -componendo il contrasto di giurisprudenza, che era insorto nell'ambito della sezione lavoro di questa Corte - ha osservato che il potere disciplinare del datore di lavoro, per quanto riguarda le sanzioni conservative, non ha la sua fonte, direttamente ed esclusivamente, nella legge - stante il rinvio (dell'articolo 2106 c.c, intitolato Sanzioni disciplinari) ad altre fonti (quali le norme corporative e, nel vigente ordinamento post-corporativo, la contrattazione collettiva) - mentre il potere di licenziamento ha la sua fonte, direttamente, nella legge (art. 1 e 3 l. n. 604 del 1966, art. 2118 e 2119 cod. civ.) - che ne prevede, quali fattispecie legittimanti, la giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo (per quel che qui interessa) - proponendone, contestualmente, definizioni adeguatamente determinate.

Muovendo da tali premesse, le sezioni unite pervengono, coerentemente, alla conclusione che la stessa garanzia - mentre trova, in ogni caso, applicazione integrale alle sanzioni conservative - non può ritenersi estranea alla materia dei licenziamenti - senza che ne risulti disattesa la pronuncia, interpretativa di accoglimento, della Corte costituzionale (sentenza n. 204 del 29 novembre 1982, cit.) - ma non ne costituisce, tuttavia, condizione di validità nei casi in cui i comportamenti, addebitati al lavoratore, siano riconducigli - alle nozioni legali di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo - a prescindere da qualsiasi specificazione ulteriore.

Ad opposta conclusione si deve pervenire, invece, nel caso in cui si intenda sanzionare, con il licenziamento appunto, comportamenti, che non sarebbero - di per sè - riconducigli a dette nozioni legali, ma - in relazione alle peculiarità della attività e/o dell'organizzazione dell'impresa - possano integrare, tuttavia, specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, solo in forza di previsioni - da inserire, appunto, nel codice disciplinare - della normativa collettiva o di quella validamente posta dal datore di lavoro.

Solo in tale caso, infatti, la pubblicità del codice disciplinare risulta indispensabile per la conoscenza della giusta causa o giustificato motivo soggettivo, che di regola risulta dalla stessa legge.

Ne risulta, quindi, enunciato il principio di diritto - condiviso dalla giurisprudenza, ora consolidata, di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 4823/87, cit., 935/88 delle sezioni unite, 19306/2004, 13194, 12735, 12027, 5434/2003, 11108, 6974/2002, 13906/2000, 5044/99, 7884/97 della sezione lavoro) - secondo cui la pubblicità del codice disciplinare è necessaria, in ogni caso, al fine dalla validità delle sanzioni disciplinari conservative, mentre - al fine della validità del licenziamento disciplinare -non è necessaria qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa o giustificato motivo soggettivo - come definiti dalla legge - mentre è necessaria qualora lo stesso licenziamento sia intimato per specifiche ipotesi giustificatrici del recesso, previste da normativa secondaria (collettiva, appunto, o legittimamente posta dal datore di lavoro).

Coerente con la funzione e con la natura del codice disciplinare - di atto unilaterale recettizio, con funzione normativa, destinato alla collettività dei lavoratori dell'impresa (o dell'unità produttiva) - risulta, poi, l'esplicita ("imposizione del mezzo di pubblicizzazione relativo ("affissione in luogo accessibile a tutti", appunto), con la conseguenza che - secondo la giurisprudenza, ora consolidata, di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 1208/88 delle sezioni unite, 5262/88, 698, 2366, 2933, /89, 1045, 4072/90, 7082/91, 3845/97 della sezione lavoro) - non solo ne risulta esclusa, da un lato, la equipollenza di mezzi di esteriorizzazione di carattere individuale, anche se applicati alla generalità dei lavoratori (quale la consegna del contratto collettivo), ma pare imposta, dall'altro, la pubblicizzazione, nella forma (della affissione, appunto) tassativamente stabilita, "in luogo accessibile a tutti" - unico per la collettività che ne è destinataria - anche per quei lavoratori, che prestino la propria fuori dalla sede dell'impresa (o dell'unità produttiva) alla quale sono addetti.

Alla luce dei principi di diritto enunciati, la sentenza impugnata non merita le censure - che le vengono mosse con il quarto motivo del ricorso incidentale - laddove ritiene la pubblicità del codice disciplinare non necessaria - nel caso in cui risulti contestato, come nella specie, l'addebito di insubordinazione - anche a volere prescindere dalla circostanza che - per il lavoratore con mansioni e qualifica di ispettore di organizzazione, che dipenda direttamente, come nella specie, dall'ufficio del personale della Direzione generale della società - è sufficiente la pubblicità del codice disciplinare, che risulta attuata presso la sede della stessa Direzione generale (in Mogliano Veneto).

Nè tale accertamento di fatto merita censure sotto l'unico profilo - deducibile in sede di legittimità (vedi infra) - del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).

Tanto basta per rigettare il quarto motivo del ricorso incidentale, perchè infondato.

Parimenti infondati risultano, tuttavia, il secondo ed il terzo motivo dello stesso ricorso.

4. Invero, nei licenziamenti disciplinari (per colpa, in senso generico, del lavoratore), il principio dell'immediatezza della contestazione degli addebiti deve essere applicato con elasticità - tenendo conto, fra l'altro, della concreta fattispecie, della specifica realtà nella quale si è verificato l'illecito disciplinare, della complessità delle indagini necessarie e del tempo occorrente per apprezzarne i risultati - con la conseguenza che la valutazione, in ordine al rispetto dello stesso principio, si risolve in un accertamento di fatto riservato al giudice di merito - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 10997, 9253, 5947, 5226, 150/2001, 14415, 6348/2000) - e, come tale, non è sindacabile, in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici.

Alla luce del principio di diritto ora enunciato, la sentenza impugnata non merita le censure - che le vengono mosse con il terzo motivo del ricorso incidentale - laddove ritiene immediata la contestazione dell'addebito e l'intimazione del licenziamento, avendo la società atteso la decisione del giudice (decreto di archiviazione) sulla denuncia in sede penale, che esaurisce senza residui - come accertato, altrove, dalla stessa sentenza - gli addebiti contestati al lavoratore.

Nè tale accertamento di fatto - sotteso alla conclusione prospettata -merita censure sotto l'unico profilo - deducibile in sede di legittimità (vedi infra) - del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).

Tanto basta per rigettare il terzo motivo del ricorso incidentale, perchè infondato.

Parimenti infondato risulta, tuttavia, il secondo motivo dello stesso ricorso.

5. Invero, nei licenziamenti disciplinari, la contestazione specifica preventiva dell'addebito al lavoratore incolpato (ai sensi dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970, cd. Statuto dei lavoratori) - secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale (vedine le sentenze n. 204/82, 1068/88, 427/89, 364/91) e di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 4823/87, 9302/87, 935, 1209/88, 3965, 4845/94 delle sezioni unite; n. 2287, 8956/93, 6988/98, 11265/2000, 9167/2003 della sezione lavoro) - concorre ad assolvere la funzione di garanzia del diritto di difesa allo stesso lavoratore, nell'ambito del procedimento preliminare - contestualmente previsto - per l'intimazione del licenziamento (come per l'irrogazione di altra sanzione) disciplinare.

In coerenza con la funzione di garanzia prospettata, la contestazione specifica preventiva dell'addebito è condizione indefettibile di legittimità del licenziamento (come di ogni altra sanzione) disciplinare. - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 10760/2001, 11279/2000, 8493/99, 5419, 2045/98) - ed impone la corrispondenza fra gli addebiti contestati e quelli addotti a sostegno dello stesso licenziamento (o di altra sanzione) disciplinare.

Tuttavia il requisito della specificità della contestazione degli addebiti deve riguardare - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine per tutte, oltre quelle citate, le sentenze n. 2238/95, 6877/88) - elementi, dati ed aspetti essenziali dei fatti materiali.

Del pari coerentemente, l'attitudine a frustrare o, comunque, a pregiudicare la stessa funzione di garanzia delimita - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 2287, 8956/93, 6988/98, 1265/2000, 9167/2003, cit.) - l'operatività del principio di immutabilità dei fatti contestati.

In altri termini, non risultano precluse dall'operatività dello stesso principio - in quanto compatibili con la funzione che, per quanto si è detto, ne risulta perseguita - le modificazioni dei fatti contestati, che non si configurino come elementi integrativi di una fattispecie di illecito disciplinare, diversa e più grave, ma riguardino circostanze prive di valore identificativo della stessa fattispecie e, perciò, non precludano la difesa del lavoratore sulla base delle conoscenze acquisite e degli elementi a discolpa apprestati, a seguito della contestazione dell'addebito. Alla luce dei principi di diritto enunciati, la sentenza impugnata non merita le censure che le vengono mosse - con il secondo motivo del ricorso incidentale - neanche sotto il profilo del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).

Tanto basta per rigettare il secondo motivo del ricorso incidentale, perchè infondato.

Parimenti infondato risulta, tuttavia, il ricorso principale.

6. Invero, nei licenziamenti disciplinari, è riservato al giudice di merito - non solo l'accertamento dei fatti addebitati al lavoratore, ma anche - il giudizio circa la gravità dei fatti medesimi e la loro proporzionalità rispetto al licenziamento (come ad ogni altra sanzione) disciplinare - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 4061, 215/2004, 17058, 14507, 12651, 12634, 12161, 12083, 12027, 9783, 3624/2003, 10775, 9410, 7188/2001, 14768, 14552, 8313, 4122/2000, 5042, 3645/99) - con la conseguenza che gli stessi accertamenti e giudizi di fatto possono essere sindacati - in sede di legittimità - sotto l'unico profilo - che, per quanto si è detto, è deducibile nella stessa sede - del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.).

Alla luce del principio di diritto ora enunciato, la sentenza impugnata non merita le censure - che le vengono mosse con il ricorso principale - laddove ritiene sproporzionato il licenziamento (anche per giustificato motivo) - rispetto al comportamento addebitato al lavoratore, pur riconoscendone la illiceità - essendo sufficiente una sanzione disciplinare conservativa.

7. Intanto ne risulta rispettato il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) - contrariamente a quanto denunciato, con il terzo motivo del ricorso principale - in quanto la sentenza impugnata ha escluso la sussistenza, nella specie, (non solo della giusta causa, ma anche) del un giustificato motivo di licenziamento.

Invero il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti, autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonchè in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed, in genere, all'applicazione di una norma giuridica, diversa da quella invocata dall'istante, ma implica tuttavia - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, la sentenza n. 11455/99, 16998/2002) - il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o, comunque, di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nei fatti di causa, ma si basi su elementi di fatto non acquisiti ritualmente in giudizio, come oggetto del contraddittorio.

In particolare, con riferimento all'inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, le fattispecie del licenziamento - per giusta causa (art. 2119 c.c.) e per giustificato motivo soggettivo (art. 3 l. n. 604 del 1966) - sono in rapporto di specialità tra loro, mentre unico - e regolato dalla legge - è il potere di recesso del datore di lavoro, che ne risulta giustificato da entrambe le fattispecie, con la conseguenza - secondo la giurisprudenza di questa r Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 16998, 9006, 6899/2002, 7185/2001, 7617/2000, 2953/99, 2248, 2204/98, 360/97, 8836/96. 7455/95) - che, sussistendo il giustificato motivo soggettivo, il licenziamento - che sia stato intimato, come nella specie, per giusta causa - non è invalido, ma produce i suoi effetti solo alla scadenza del periodo di preavviso, e va verificata dal giudice anche d'ufficio - pena il difetto di motivazione - la possibilità della sua coerente riqualificazione giuridica relativa (quale licenziamento per giustificato motivo soggettivo, appunto), sulla base degli elementi di fatto ritualmente acquisiti in giudizio, nello stesso momento in cui esclude la configurabilità di una giusta causa.

Tuttavia, risulta nella specie esclusa - per quanto si è detto - sia la giusta causa che il giustificato motivo di licenziamento.

Peraltro l'accertamento relativo - sinteticamente riferito in narrativa - non merita le censure - che le vengono mosse con il primo ed il secondo motivo del ricorso principale - sotto il profilo del vizio di motivazione (articolo 360, n. 5, c.p.c.).

8. Invero la denuncia di un vizio di motivazione in fatto, nella sentenza impugnata con ricorso per Cassazione (ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c.) - vizio nel quale si traduce anche la mancata ammissione di un mezzo istruttorie (vedi, per tutte, Cass. n. 13730, 9290/2004), nonchè l'omessa od erronea valutazione di alcune risultanze probatorie (vedi, per tutte, Cass. n. 3004/2004, 3284/2003, cit.) - non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, le argomentazioni - svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento - con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere - secondo l'orientamento (ora) consolidato della giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 13045/97 delle sezioni unite e n. 19306, 21377/2004, 16213, 16063, 11936, 11918, 7635, 6753, 5595/2003, 3161/2002, 4667/2001, 14858, 9716, 4916/2000, 8383/99 delle sezioni semplici) - dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico- giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti, nè, comunque, una diversa valutazione dei medesimi fatti.

In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità (dall'art. 360 n. 5 c.p.c.) - non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità. Pertanto, al giudice di legittimità non compete il potere di adottare una propria motivazione in fatto (arg. ex art. 384, 2 comma, c.p.c.) nè, quindi, di scegliere la motivazione più convincente - tra quelle astrattamente configurabili e, segnatamente, tra la motivazione della sentenza impugnata e quella prospettata dal ricorrente - ma deve limitarsi a verificare se - nella motivazione in fatto della sentenza impugnata, appunto - siano stati dal ricorrente denunciati specificamente - ed esistano effettivamente - vizi che, per quanto si è detto, siano deducibili in sede di legittimità.

Lungi dal denunciare vizio di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.) - nell'accertamento di fatto della sentenza impugnata - in ricorso sembrano, tuttavia, prospettate - inammissibilmente -ricostruzioni diverse dei medesimi fatti, che ne sono addotti a sostegno.

A prescindere dalle superiori considerazioni e conclusioni - peraltro assorbenti - l'accertamento di fatto della sentenza impugnata - sinteticamente riferito in narrativa - non pare, comunque, inficiato da vizio di motivazione.

Tanto basta per rigettare - perchè infondati - il secondo e terzo motivo del ricorso principale, nonchè per ribadire - sotto il profilo, ora prospettato - il rigetto dei motivi, già esaminati, del ricorso incidentale.

Risulta, invece, fondato - come pure è stato anticipato - il primo motivo dello stesso ricorso incidentale.

9. E ben vero, infatti, che il difetto di colpa del datore di lavoro - in quanto determinato al licenziamento dalle giustificazioni "erronee o fuorvianti", addotte dal lavoratore nell'ambito del procedimento disciplinare - non esclude la illegittimità del licenziamento medesimo - ove questo non risulti sorretto da giusta causa o giustificato motivo, all'esito degli accertamenti effettuati nel giudizio di impugnazione (come nella specie) - ma può incidere, tuttavia, sulla diversa domanda di risarcimento del danno, subito dal lavoratore per il licenziamento illegittimo, per la parte eccedente la misura minima garantita (pari a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto) - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 4050/2004, 10260/2002, 6042/2000, 9464/98, 10247/95) - consentendone, quindi, la liquidazione in misura inferiore rispetto alla "retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione".

Alla luce del principio di diritto enunciato, la sentenza impugnata merita le censure - che le vengono mosse con il primo motivo del ricorso incidentale - laddove limita - alla misura minima garantita (pari a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto) - il risarcimento del danno, subito dal lavoratore per il licenziamento illegittimo.

10. Lungi dal prospettare il difetto di colpa del datore di lavoro - in quanto determinato al licenziamento dalle giustificazioni "erronee o fuorvianti", addotte dal lavoratore nell'ambito del procedimento disciplinare - la sentenza impugnata, infatti, "valut(a) in misura minima il grado di colpa del datore di lavoro nella determinazione della scelta risolutiva", in base al rilievo che il lavoratore - dopo l'archiviazione della denuncia penale, addotta a motivazione del proprio licenziamento - ha "insist(ito) nella legittimità del proprio operato, quasi mettendo in dubbio le risultanze del giudizio penale", anzichè tenere "una reazione dimessa (...), con accettazione delle determinazioni aziendali".

Intanto l'accertamento della "colpa del datore di lavoro" - sia pure "in misura minima"- è da solo sufficiente per escluderne qualsiasi incidenza sul risarcimento del danno, subito dal lavoratore per il licenziamento illegittimo.

Tuttavia, l'asserita insistenza del lavoratore - nel sostenere la "legittimità del proprio operato", anche dopo l'archiviazione della denuncia penale - non risulta, comunque, idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, in ordine all'unico fatto (la denuncia penale, appunto), che - per quanto si è detto -risulta contestato e, perciò, legittimamente addotto a giustificazione dello stesso licenziamento.

Tanto basta per accogliere il primo motivo del ricorso incidentale.

Infondato risulta, invece, il quinto motivo dello stesso ricorso.

11. Invero la valutazione, circa l'opportunità della compensazione delle spese processuali (ai sensi dell'art. 92 c.p.c.), rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito, sia nell'ipotesi di soccombenza reciproca, sia in ogni altra ipotesi di ricorrenza di giusti motivi - secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 8540/2005, 16162/2004, 17424, 12774, 11744, 9707/2003, 16012/2002, 3272/2001, 5390/2000, 11770/98, 5174/97) - e, come tale, è sindacabile, in sede di legittimità, nei soli casi in cui ne risulti violato il principio - secondo il quale le spese processuali non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa - oppure, a motivazione della compensazione, siano state addotte ragioni palesemente illogiche o, comunque, tali da inficiare lo stesso processo formativo della volontà decisionale, nè induce a discostarsi - dall'orientamento giurisprudenziale prospettato - l'ordinanza di inammissibilità della Corte costituzionale (ordinanza n. 395 del 2004) - pronunciata con riferimento a questioni di legittimità costituzionale, che investono quello stesso diritto vivente (sullo specifico punto, vedi, in particolare, Cass. n. 8540/2005, cit.) - in quanto ne risulta assicurato il bilanciamento dei valori costituzionali di garanzia del diritto di difesa delle parti e di ragionevole durata del processo (di cui all'articolo 24 e, rispettivamente, all'articolo 111 della costituzione), senza che sia ipotizzabile - allo stato - una qualsiasi altra interpretazione diversa delle stesse disposizioni coinvolte (di cui all'articolo 92 c.p.c. cit.), che - oltre ad essere costituzionalmente legittima - risulti parimenti capace di evitare il prevedibile aumento delle impugnazioni e la ulteriore inflazione, che ne conseguirebbe, nel numero dei processi - sebbene questa abbia già raggiunto i limiti di guardia - con incremento dei costi sociali già elevati, che ne derivano, e con inevitabili ricadute negative - per quanto riguarda, in particolare, questa Corte - sulla giurisdizione di legittimità e sulla funzione nomofilattica.

Alla luce del principio di diritto enunciato, la sentenza impugnata non merita le censure - che le vengono mosse con il quinto motivo del ricorso incidentale - laddove perviene alla conclusione che, "avuto riguardo alla peculiarità della fattispecie esaminata, si ritiene equo compensare tra le parti per intero le spese del doppio grado di giudizio".

Tanto basta per rigettare il quinto motivo del ricorso incidentale.

12. Pertanto, previa riunione dei ricorsi, deve essere accolto il primo motivo del ricorso incidentale, mentre debbono essere rigettati gli altri motivi dello stesso ricorso, nonchè il ricorso principale.

Per l'effetto, la sentenza impugnata va cassata - in relazione al motivo accolto - con rinvio ad altro giudice d'appello, designato in dispositivo, perchè proceda al riesame della controversia - uniformandosi al principio di diritto enunciato - e provveda, contestualmente, al regolamento delle spese di questo giudizio di Cassazione (ari 385, 3 comma, c.p.c.).

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; Accoglie il primo motivo del ricorso incidentale e rigetta gli altri motivi dello stesso ricorso, nonchè il ricorso principale; Cassa la sentenza impugnata - in relazione al motivo accolto - con rinvio alla Corte d'appello di Napoli, anche per il regolamento delle spese di questo giudizio di Cassazione.

Così deciso in Roma, il 23 marzo 2005.

Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2005